VII Conferenza SIU
Il progetto di territorio e paesaggio
Trento, 13 - 14 febbraio 2003
Attualità della regolazione urbanistica
di Bertrando Bonfantini
Nel dibattito recente la dimensione strategica, la dimensione strutturale, la dimensione operativa (di programmazione per progetti) sono gli aspetti della pianificazione contemporanea ai quali più frequentemente si sono riconosciuti caratteri d’innovazione. Per contro, delle componenti regolamentari, ma più in generale della dimensione regolativa della pianificazione, si è teso a sotto-lineare il carattere tradizionale, la statica rigidità, l’intrinseca talora ottusa banalità, spesso la sostanziale obsolescenza e inattualità.
In questo scritto si
svilupperanno alcune osservazioni a favore di posizioni meno rigidamente
contrappositive. Si cercherà di sottolineare alcuni fattori di rinnovata
attualità della dimensione regolativa e si tenterà di argomentare come possa
essere utile, nello scenario odierno, un atteggiamento che abbandonando le
categorie di innovazione e tradizione, soprattutto se utilizzate come criteri a
priori di giudizio e di misura di valore, assuma piuttosto una prospettiva
pragmatica di efficacia, disponibile a interpretare e progettare le pratiche contemporanee
in fertile interazione e confronto con il sapere tecnico cumulato, quale
risorsa attraverso cui affinare anche gli strumenti più innovativi.
Ho cercato di argomentare in
maniera più approfondita questa tesi in un libro specificamente dedicato a indagare
le forme tecniche degli strumenti regolativi del progetto urbanistico applicati
alla città esistente (Bonfantini 2002). La chiave interpretativa assunta è
volta a riconoscere lo spessore diacronico dei procedimenti tecnici
contemporanei (il loro aver preso forma in una dinamica complessa di lungo
periodo) e, al contempo, la natura continuamente sperimentale del sapere
urbanistico e delle sue pratiche. Mi sembra, cioè, che nelle sperimentazioni
odierne più interessanti si possano riconoscere inestricabilmente connessi
fattori di innovazione e di rielaborazione originale di un bagaglio tecnico
sedimentato, di un savoir faire, di un’expertise che hanno radici
profonde nel tempo, e che costituiscono un patrimonio cui attingere.
Ciò non significa assumere
una posizione intrinsecamente continuista rispetto al passato, che non ammetta
scarti rilevanti e nuove significative introduzioni rispetto al sapere e alle
pratiche più consolidati. Significa, però, prendere le distanze dalle tendenze
di dissipazione acritica, e dalle retoriche reiteratamente rifondative e
palingenetiche.
Esplicitando fin da subito
le ragioni fondamentali a sostegno di una rinnovata centralità della dimensione
regolativa, sembra oggi possibile cominciare a osservare, con relativa chiarezza,
che la grande stagione della ristrutturazione urbana conseguente alla
dismissione industriale si sta avviando a conclusione. Certo, rimangono
operazioni residue, talvolta anche numerose e di dimensioni rilevanti, ma una
fase di bilancio ha, comunque, avuto inizio: una fase di valutazione critica rispetto
alle occasioni che si sono sapute cogliere o che si sono perdute, a fronte
delle opportunità offerte da questo scenario di trasformazione “epocale”. E se
rispetto a molti contesti tali considerazioni potranno apparire eccessive e
ancora premature, in riferimento alle aree urbane più dinamiche – è il caso di
Milano, ad esempio – anche solo alcuni semplici dati quantitavi le rendono difficilmente
controvertibili[1].
Il problema della
riconfigurazione di intere parti urbane, che ha preso forma e si è delineato
negli anni ’80, e che il progetto urbanistico ha aggredito per mezzo di
strutture/strategie/progetti in tutto l’arco degli anni ’90, sembra oggi
progressivamente esaurire la sua centralità e pregnanza. E la distinzione tra
territori della regola e territori dell’eccezione non appare più riproponibile
con quella medesima efficacia interpretativa con cui poteva avanzarsi quindici
anni fa.
Le condizioni sono cambiate.
Il territorio urbano contemporaneo appare trasversalmente investito, in tutte
le sue parti, da una miriade di fenomeni trasformativi meno univocamente
decifrabili, di grana variabile – grande, media, ma soprattutto piccola,
piccolissima, pulviscolare. E il tema che sembra emergere con forza sempre
maggiore in questo mutato scenario sembra essere quello della problematica abitabilità
di un territorio multiforme.
La ricerca di una migliore
abitabilità – quale concetto relativo, radicato nei contesti e specificamente
relazionato alle pratiche delle società insediate – sembra oggi
progressivamente imporsi come uno dei temi nodali del progetto urbanistico
contemporaneo. Condizioni di abitabilità che si configurano come esito di
azioni minute e plurime di trasformazione incessante dello spazio fisico e di
pratiche sociali nello spazio, attraverso lo spazio. L’abitabilità, quindi,
come risultato di un patto sociale più o meno felice, come esito di comportamenti
che si compongono in un agire collettivo il quale costruisce le condizioni di
vivibilità di un territorio. Un patto sociale si deposita in sistemi di regole
condivise, in forme regolamentari, esplicite o implicite (consuetudinarie,
tacite), in “statuti dei luoghi”. Di qui sembra derivare, anche per il progetto
urbanistico, un rinnovato interesse per la dimensione regolativa.
Proprio in questa direzione
muove, ad esempio, la sperimentazione operata da alcuni regolamenti edilizi
recenti (i casi di Seregno, Seveso, Parabiago, nel milanese, mi paiono in tal
senso di grande interesse): strumenti tradizionali per antonomasia ed eppure
tra i più innovativi nel panorama contemporaneo, proprio per il loro tentativo
di confrontarsi con questa miriade di comportamenti microtrasformativi, alla
ricerca di un patto condivisibile per la produzione minuta di territorio in
funzione di una migliore qualità dello spazio abitabile.
Tre almeno sono i fili
attraverso cui rintracciare i percorsi che riportano oggi la dimensione
regolativa al centro del progetto urbanistico.
Uno degli aspetti più
rilevanti della ricerca disciplinare dell’ultimo decennio può essere
individuato nel profondo rinnovamento che ha interessato le descrizioni e interpretazioni dei fenomeni urbani e
territoriali contemporanei. Il riferimento è a testi inaugurali quale può
essere considerato, rispetto alla regione urbana milanese, Il territorio che
cambia (Boeri, Lanzani, Marini 1993), alla molteplicità di ricerche che
hanno indagato la diffusione insediativa in vari contesti territoriali italiani
ed europei (Paone 1994), al contributo fondamentale della ricerca Itaten
(Clementi, Dematteis, Palermo 1996). Tutti studi, questi ultimi, che hanno
permesso di mettere a fuoco una nozione ampia di paesaggio, quale esito e contemporaneamente teatro
di pratiche e comportamenti che lo costruiscono e ne costituiscono componente
inestricabile. Un paesaggio fatto, quindi, di forme fisiche e dinamiche sociali
indissolubilmente intrecciate, e tipicamente contraddistinto dalla trama fine
di tali forme e comportamenti.
Un secondo filone a fondamento di una rinnovata
domanda di regolazione urbanistica è costituito dalla sperimentazione di
pratiche partecipative nella pianificazione. La partecipazione come espressione
di istanze autoregolative sul territorio, come affermazione delle ragioni di
una qualità dell’abitare calata nel locale (in problematico quando non
conflittuale rapporto con le ragioni della compezione globale tra città e del
marketing urbano), come ricerca di una fondazione sociale di un progetto
urbanistico radicato nei luoghi, come manifestazione di rinnovate dimensioni
comunitarie nel rapporto spazio/società. Attraverso le esperienze partecipative
ha preso corpo e si è messa a fuoco una concezione dello spazio abitabile, un’idea
stessa di abitabilità, che si definisce nel rapporto con il contesto, quale
diretta espressione delle opzioni e delle pratiche delle società insediate.
Un terzo filone, forse meno eclatante, meno
appariscente, al quale è stata dedicata una minore esplicita attenzione e che
ha attraversato con minore evidenza – per così dire, sottotraccia – il
dibattito degli ultimi anni, si può individuare nella linea ininterrotta del
progetto urbanistico impegnato nella disciplina della città esistente, a
partire dalla tradizione di strumenti per la salvaguardia dei centri storici.
Una tradizione operativa importante perché, nella necessità di conseguire
risultati nella difesa e valorizzazione di caratteri fisici del territorio
portatori di “valore” e caricati di connotazioni identitarie, essa si è dovuta
esplicitamente confrontare con il problema della qualità urbana, uscendo dalla
genericità, imprendibilità e ineffabilità del concetto, per selezionarne
tentativamente gli elementi e riproporli nel progetto urbanistico in concreti
meccanismi regolativi.
A queste tre grandi matrici può essere ricondotta la
sperimentazione recente di una vasta ed eterogenea gamma di strumenti
regolativi nel progetto urbanistico. Guide, regolamenti, manuali, abachi, album
e repertori con gradi differenziati di cogenza e in rapporto variabile con i
documenti di piano: integrazioni organiche delle norme tecniche, appendici e
complementi con valenze esplicative e comunicative, operazioni in accompagnamento
o in completa autonomia.
In termini generali, ne emergono una città e un
territorio descritti per parti riconoscibili, ognuna delle quali caratterizzata
da set di specifiche regole “grammaticali” e “sintattiche” che ne organizzano i
materiali e i principi insediativi, e cui fa da sfondo una pervasiva istanza di
riqualificazione, una costante tensione verso una qualità urbana da rigenerare,
che costituisce la tematizzazione più frequente sottesa al progetto urbanistico
contemporaneo. Istanze di riqualificazione e di qualità urbana che, è stato osservato,
precisano il proprio contenuto e assumono un significato differente da un
semplice e generico agire retorico solo quando si declinano nella specificità
delle situazioni entro cui sono chiamate ad operare[2].
Ecco allora che gli
strumenti discreti della regolazione si candidano a svolgere un ruolo
importante nel progetto contemporaneo. Un ruolo diverso dalle potenzialità di
riscatto formale e simbolico di cui si è voluto talora catarticamente caricare
il progetto d’architettura, e diverso anche dalla rara eccezionalità dei
progetti urbani – intesi quali “nane bianche” di funzioni speciali e
strategiche. Si tratta, piuttosto, di strumenti modesti, ordinari, “normali”
nel loro tentativo di controllare e valorizzare qualità “relazionali”, di
definire regole contestuali di produzione/disposizione di materiali urbani.
4. Una domanda di strumenti
regolativi
Due casi che hanno catalizzato l’attenzione del
dibattito recente si prestano a esemplificare la domanda di strumenti
regolativi che attraversa il progetto urbanistico contemporaneo. Il riferimento
alle esperienze di Milano e Roma è strumentale, per la valenza paradigmatica di
cui si sono caricati nel dibattito recente e per il significato simbolico,
talora contrappositivo, che essi hanno assunto.
Il caso di Milano, e in particolare la più recente
stagione di programmazione per progetti (con i programmi integrati di
intervento governati attraverso il Documento di inquadramento delle politiche
urbanistiche comunali), appare emblematico per la necessità di superare una
rigida distinzione tra ambiti della regola e ambiti del progetto, un’eccessiva
distanza tra urbanistica regolativa e urbanistica operativa.
La recente sperimentazione dei Pii sembra, infatti,
invocare la necessità di una migliore integrazione tra l’operatività dello
strumento urbanistico e la definizione dei criteri di indirizzo e valutazione
delle proposte. In via di esaurimento le aree di maggiori dimensioni e di
rilevanza strategica, il paesaggio della trasformazione tende a caratterizzarsi
come costellazione di episodi di grana variabile: inserti puntuali – in forma
di “addizione” di parti e di “aggiunta” di singoli tasselli dentro un
“costruito” più o meno spazialmente definito – che richiedono, perché possano
essere operazioni generatrici di qualità urbana, l’elaborazione di adeguati
strumenti d’ausilio al progetto urbanistico, contemporaneamente allo sviluppo
di una nuova, non scontata, intensiva riflessione sullo spazio abitabile.
Secondo questa chiave di
lettura, proprio per il progetto di riqualificazione di questi episodi urbani
investiti da processi trasformativi si apre uno spazio importante per strumenti
regolativi di nuova generazione. Non tanto per fissare elementi imprescindibili
di assetto morfologico (secondo un’interpretazione ridotta della formula del
progetto norma) quanto piuttosto per esprimere “bandi” delle prestazioni
attese, sulla base dei quali configurare fertili processi istruttori e
valutativi. Bandi verbo-visivi attraverso cui esplicitare, in forma ostensiva e
radicata nel contesto, requisiti che si richiedono alla soluzione progettuale.
Bandi come esplorazioni tentative per “mettere insieme le cose” in funzione di
obiettivi di qualificazione insediativa e per attivare processi dialogici tra
proponente e valutatore. Bandi come strumenti per superare la vaghezza di
documenti di scenario inevitabilmente troppo generici e la schematica rigidità
di norme astratte, incapaci di aggredire la specificità delle situazioni. La
finalità di questi strumenti, nell’ambito dei programmi integrati, non consisterebbe
nella prescrittività normativa – rispetto alla quale, anzi, essi andrebbero
opportunamente “depotenziati” –
quanto, piuttosto, nella dimensione esplicativa e comunicativa per la
definizione di obiettivi consensuali.
Il caso romano, invece, può essere utile – proprio per
il suo carattere di esperienza corale in cui vengono rimetabolizzati ed
elaborati procedimenti e tecniche di differente origine – per delineare alcune
famiglie di strumenti regolativi tipici di quest’ultimo periodo.
Sembra possibile riconoscere
due grandi raggruppamenti: schemi di ricomposizione urbanistica e set di regole
dispositive. I primi (schemi ricompositivi) trovano giustificazione nella
fenomenologia della ristrutturazione urbana che caratterizza quest’ultimo
periodo: occasioni plurime di trasformazione che si distribuiscono per singoli
episodi in una città porosa e delle quali delineare possibili quadri di
coerenza. I secondi (set di regole dispositive, volti alla definizione e al
controllo delle relazioni tra elementi dello spazio edificato e aperto)
derivano dalla nuova attenzione descrittiva estesa alle parti anche più recenti
della città contemporanea, con originali atteggiamenti interpretativo-progettuali
della varietà insediativa che ne caratterizza i suoi molteplici e differenti
ambiti. Si tratta di due ceppi di proposizioni regolative – entrambe
esprimentisi tipicamente in forme verbo-visive – che possono ricondursi (le
une) all’esigenza di anche parziali “scenari di riferimento” e (le altre) a
quella di una “descrizione densa” (Lanzani 2002), capace, cioè, di cogliere e
trattenere i fattori qualificanti.
Nell’ultimo piano di Roma,
questi due ceppi di strumenti regolativi si traducono innanzitutto in una disciplina
“ordinaria” per tessuti (che si esprime attraverso la carta dei «Sistemi e regole»), alla quale è affidato il
compito di
presidiare i fattori di sintassi spaziale ricorsivi e identitari, con la
definizione di criteri di coerenza per il progetto dei materiali urbani,
rispetto a riconosciuti caratteri qualificanti e portatori di valore
insediativo. La
disciplina per sistemi e regole è supportata, quindi, da una «Guida per la qualità degli
interventi», quale fondamentale
strumento di progettazione assistita: un complemento alle norme tecniche per
certi versi ormai “classico”, che gradua le proprie indicazioni normative secondo una gamma di
contenuti con valenza prescrittiva, di indirizzo e di esemplificazione
comportamentale. A questi apparati regolativi se ne associa uno ulteriore più fortemente
selettivo, organizzato per «Ambiti di programmazione strategica» che,
riconnettendo singole operazioni progettuali, ne reinterpreta “compositivamente” il ruolo. Gli «Ambiti di programmazione
strategica» sono, infatti, articolazioni
spaziali complesse che il piano riconosce come qualificanti e delle quali organizza
la valorizzazione, attraverso la messa a sistema di una serie di interventi
secondo alcune fondamentali ipotesi di assetto complessivo. Gli Ambiti si
propongono come “racconti” entro cui trovano coerenza trasformazioni
molteplici: sono sistemi spaziali che tematizzano e orientano l’interpretazione
della città nelle sue forme strutturanti e costitutive, suggerendo connessioni
tra materiali urbani differenti reciprocamente organizzati.
Riferimenti
bibliografici
Boeri
Stefano, Lanzani Arturo, Marini Edoardo (1993), Il territorio che
cambia. Immagini, ambienti, paesaggi della regione milanese, Abitare
Segesta, Milano.
Bonfantini Bertrando (2002), Progetto urbanistico
e città esistente. Gli strumenti discreti della regolazione, Clup, Milano.
Città di
Seregno (2000), Regolamento Edilizio - aprile 2000.
Clementi Alberto, Dematteis Giuseppe, Palermo Pier
Carlo (1996), a cura di, Le forme del territorio italiano, vol. I: Temi
e immagini del mutamento, vol. II: Ambienti insediativi e contesti
locali, Laterza, Roma-Bari.
Collarini Simona, Guerra Giovanni, Riganti Paolo
(2002), “Programmi integrati di intervento: un primo bilancio”, in Bertrando
Bonfantini (a cura di), “Urbanistica a Milano”, Urbanistica, n. 119.
Infussi Francesco (2002), Progetti, regole,
manuali. Ripetizione, stabilità e mutamento nel progetto urbanistico,
dispensa didattica, Laboratorio di progettazione urbanistica, Facoltà di
Architettura civile, Politecnico di Milano, a.a. 2002-2003.
Lanzani Arturo (2002), “La rilevanza del tema e le
sue dimensioni”, in Valeria Erba (a cura di), “Norma e forma nel progetto
urbano”, Territorio, n. 20.
Paone Fabrizio (1994), a cura di, “Le trasformazioni
dell’habitat urbano in Europa”, Urbanistica, n. 103.
Praderio Gregorio (1999), La vicenda dei
Programmi di riqualificazione urbana a Milano (1995-1997), dispensa didattica,
Laboratorio di politiche infrastrutturali e insediative, Corso di laurea in
Pianificazione territoriale, urbanistica e ambientale, Politecnico di Milano,
a.a. 1999-2000.
[1]
Per citare solo le operazioni condotte con i recenti strumenti della
programmazione complessa, i Programmi di riqualificazione urbana hanno avviato
a Milano trasformazioni urbanistiche per una supericie territoriale di più di
un milione e mezzo di metri quadri, «circa un terzo di tutte le aree di
possibile trasformazione presenti sul territorio comunale» (Praderio 1999). I
successivi Programmi integrati di intervento, disciplinati dal Documento di
inquadramento delle politiche urbanistiche comunali (giugno 2000), hanno
promosso (al 15 maggio 2002) operazioni trasformative per ulteriori 2,9 milioni
di metri quadri (Collarini, Guerra, Riganti 2002).
[2]
«“Qualità urbana” non è categoria di facile impiego, né dal significato ovvio:
abbisogna di precisazioni, di essere ben circoscritta nelle sue accezioni e nel
campo di applicazione. Non si può evitare di sottolineare la vaghezza di una
categoria che sembra essere più “allusiva” che definitoria, “evocativa” più che
prescrittiva. La sua natura è eminentemente culturale, cioè legata sempre ad
uno specifico contesto» (“Relazione introduttiva”, in Città di Seregno 2000).
«Se la qualità
urbana è il vago, ma centrale obiettivo che il piano si propone, rispondendo ad
una pluralità di domande che di essa fanno richiesta, occorre dire con
precisione d che cosa si tratta, in riferimento a concreti progetti che diano
luogo ad un insieme di procedure di interazione sociale, non solo alla
definizione dello spazio fisico» (“Traduzione normativa” [1995], in Infussi
2002).