Vincenzo Zito

ITC Istituto per le Tecnologie della Costruzione*

National Research Council - Italy


 

NORME EDILIZIE E QUALITÀ DELLA MANUTENZIONE URBANA

BUILDING CODES AND QUALITY IN URBAN MAINTENANCE

 

SINOPSYS

The recent legislative innovations in building’s procedures minimize public control on the building activities in the name of procedures’ simplification. It is erroneously assumed that compliance with the existing communal building codes is sufficient to guarantee urban quality.

The paper means to demonstrate the inadequacy of municipal building codes for quality in the urban maintenance.

A revision of the contents of the town building codes appeans as the right solution to this problem. It can consist in the opening of new approaches or in the recovery of old ones.

 

 

·       Obiettivi

Il lavoro che si presenta intende evidenziare il ruolo che la normativa edilizia italiana svolge nell’ambito della manutenzione urbana. In particolare si intendono esaminare alcuni casi applicativi della normativa comunale, costituita dal Regolamento edilizio (Re) e dalle Norme tecniche d’attuazione (Nta) dello strumento urbanistico, rapportata con la corrispondente normativa edilizia statale e regionale. Il contenuto fa parte di un più ampio progetto di ricerca in materia di normativa edilizia in corso presso l’ITC-CNR.

L’interesse per questo particolare angolo visuale deriva principalmente dal fatto che in Italia, nel decennio trascorso, si è passati da un sistema che, attraverso il rilascio della concessione edilizia, accentrava nella mano pubblica (il comune) il totale controllo delle attività di trasformazione e di manutenzione del territorio, ad un sistema che ha delegato tale controllo, attraverso la diffusione della denuncia di inizio attività (c.d. DIA), ai tecnici privati. Anche se, com’è noto, il cosiddetto “totale controllo pubblico” sull’attività edilizia era più formale che sostanziale: nel concreto, fatto salvo il rispetto dell’indice di cubatura, del rapporto di copertura, dell’altezza massima e dei distacchi, ognuno faceva (e tutt’oggi fa) quello che gli pareva (e che gli pare). Tra le cause di questo stato di cose bisogna annoverare, oltre la dilagante incultura, anche la totale insufficienza ed arretratezza della normativa edilizia.

Si immagini ora, in un simile contesto, quali conseguenze possa avere la liberalizzazione di alcuni tipi di intervento i cui contenuti qualitativi, in mancanza di una adeguata normativa tecnica, sono interamente devoluti alla buona volontà dei privati committenti (e dei loro tecnici).

 

Seguendo una proposta di Ferracuti (G. Ferracuti, 1995), in questo lavoro si farà riferimento ad un concetto di manutenzione esteso, in una visione quindi piuttosto ampia della casistica di una ipotetica lista degli interventi, comprendendo in essa anche tipologie limite quale, ad esempio, la ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione introdotta da una recente legge dello stato.

 

·       Metodologia

Correntemente quando si parla di manutenzione urbana questa non si sottintende finalizzata soltanto a prolungare nel tempo la vita degli edifici. La manutenzione assume anche una valenza strategica per la gestione e sviluppo del territorio, con rilevanti riflessi sociali, per la cui corretta azione si richiede una vera e propria educazione che deve investire tutti i soggetti interessati e tutti i processi collegati (G. Dioguardi, 1994).

In questa ottica un ruolo non secondario è svolto dall’insieme di quegli interventi di manutenzione volti al contenimento dei consumi energetici che organismi pubblici e singoli cittadini pongono sempre più frequentemente in essere. Com’è noto, del problema sono prevalentemente investiti gli insediamenti urbani realizzati a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale sino agli anni ‘70, nel periodo del cosiddetto boom edilizio. Questi sono caratterizzati da un basso livello di coibentazione dovuto alla elevata trasmittanza degli involucri murari ed ai numerosi ponti termici dovuti alla presenza di strutture in cemento armato poco o per nulla coibentate. La conseguente elevata trasmissione di calore, dall’interno verso l’esterno, in passato era compensata da un incremento dei consumi energetici per il riscaldamento. Con la crisi petrolifera dei primi anni ‘70 questo sistema di costruzione è entrato in crisi. I limiti posti dalla normativa statale in materia di consumi energetici (legge 373/1976, poi sostituita dalla legge n.10/1991) e l’aumento dei costi dei combustibili ha comportato una generale riduzione delle temperature di esercizio. Si è così acuito un diffuso stato di un disagio abitativo per l’accentuarsi degli effetti negativi dovuti alla presenza di pareti “fredde” e conseguente diffusione di fenomeni di condensa, muffe ed altro. Per una mitigazione di questi inconvenienti e per giungere ad una effettiva riduzione dei consumi energetici le soluzioni tecniche disponibili consistono prevalentemente nell’incremento della capacità coibente delle murature perimetrali e della copertura attraverso un inspessimento effettuato con materiali ad alta coibenza termina (c.d. cappotto). Per quanto riguarda la copertura, una maggiore capacità coibente si ottiene anche con la realizzazione di un idoneo sottotetto.

Sovente la realizzazione di questi interventi è ostacolata dalle norme edilizie locali in quanto non aggiornate a causa di “resistenze” dovute all’arretratezza del modello culturale sul quale sono state costruite. A volte, invece, una normativa di rango superiore calata in un contesto improprio può comportare la realizzazione di interventi che, ripetuti innumerevoli volte in forma diffusa, possono portare ad una profonda alterazione dei carichi urbanistici e/o della qualità architettonica di interi contesti urbani.

 

Si prenda in esame il semplice e più diffuso caso di un incremento della capacità coibente dell’involucro murario di un edificio esistente attraverso la formazione del ”cappotto”. Ovviamente la realizzazione dell’intervento comporterà un incremento, seppure lieve, della cubatura. Questo fatto, qualora l’edificio in esame abbia già utilizzato tutta la cubatura esprimibile dal lotto, caso piuttosto frequente, comporterà l’impossibilità di realizzare l’intervento. Tanto più qualora l’edificio abbia una cubatura eccedente a quella esprimibile dal lotto in quanto all’epoca della costruzione gli indici volumetrici erano più elevati (piuttosto comune in Italia per gli edifici costruiti prima del 1968, anno in cui con il D.M. n.1444 si avviò una generale riduzione degli indici edilizi).

E’ questo, quindi, un caso in cui la normativa edilizia locale è di ostacolo ad un intervento di manutenzione finalizzato ad un miglioramento del rendimento prestazionale dei manufatti urbani in termini di consumi energetici. A questo ostacolo si potrebbe ovviare ripensando lo strumentoutilizzato per esprimere la capacità edificatoria di un determinato lotto edificabile in termini di mq/mq (indice di superficie di metro quadrato netto utile su metro quadrato edificabile) anziché, come avviene attualmente, in termini di mc/mq (c.d. indice di cubatura di metro cubo lordo su metro quadrato edificabile).

Com’è noto, l’uso dell’indice di cubatura sott’intende un rapporto di un abitante per un volume di 80 mc, valore convenzionalmente previsto dal D.M. n.1444/1968 sugli standard urbanistici Questo valore può considerarsi realistico solo se applicato all’edilizia abitativa recente e contemporanea ma è decisamente fuori dalla realtà se applicata all’edilizia antica ed a quella realizzata fino al secondo conflitto mondiale. Con riferimento all’edilizia contemporanea, poi, questo tipo di approccio è penalizzante nei confronti di una scelta progettuale volta a dare un maggior “cubo d’aria” nelle abitazioni e/o una maggiore capacità coibente degli involucri di chiusura verticali e orizzontali. Una diversa impostazione dell’indice di edificabilità basata sul rapporto mq/mq permetterebbe di affrontare in maniera diversa i problemi di interventi edilizi all’interno dei tessuti edificati, ivi compresa la sostituzione degli edifici, in quanto consentirebbe di porre su piani comparabili edifici aventi altezza, e quindi cubatura, diversa a parità di superficie utile. Per le sue potenzialità in tema di sviluppo sostenibile questa impostazione è stata inserita nel Codice concordato di raccomandazioni per la qualità energetico ambientale di edifici e di spazi aperti del 1998 (v. N.Maiellaro e V.Zito, 2000). Purtroppo l’introduzione di questo nuovo parametro richiede una revisione concettuale di tutto il tradizionale sistema di parametrizzazione edilizia, alla quale si oppone una resistenza inerziale dell’attuale sistema a modificare se stesso. Non a caso il Codice concordato di cui è cenno, pur annoverando adesioni in ben 56 comuni e 4 regioni (dati del 2000) risulta al momento sostanzialmente fermo alle dichiarazioni di principio.

Non potendo in tempi brevi modificare il tradizionale assetto normativo e stante la necessità di agevolare gli interventi volti alla riduzione dei consumi energetici, si è dovuto far ricorso alla obsoleta prassi della deroga normativa. Alcune regioni hanno stabilito con proprie leggi che il maggior volume conseguito per un incremento degli spessori degli involucri edilizi, finalizzato a conseguire una maggiore coibentazione termica, siano esclusi dal calcolo della cubatura totale dell’edificio. Su questa strada, aperta dalla Lombardia con L.R. n.25/1995, si sono mosse anche altre regioni, tra le quali il Veneto (L.R. n.21/1996), la Puglia (L.R. n.23/1998), il Piemonte (L.R. n.21/1998) e la Basilicata (L.R. n.15/2000).

Bisogna osservare che questa politica di deroga, mentre permette di dare una soluzione immediata ad un determinato problema, nel medio e lungo periodo non fa altro che consolidare lo stato di confusione che regna nel settore della normativa edilizia italiana e ritardarne la revisione.

Un’altra iniziativa finalizzata al contenimento dei consumi energetici, alla quale è stata associato anche il contenimento del consumo di suolo, è stata avviata da alcune regioni prevedendo di poter utilizzare i sottotetti esistenti anche a fini abitativi. Questa strada è stata aperta dalla Lombardia con la L.R. n.15/1996 (v. I. Franco, 1995), seguita dalle regioni Piemonte (L.R. n.21/1998) e Basilicata che ha addirittura emanato due leggi (L.R. n.5/1998 e n. 8/2002).

Con queste leggi le regioni, scavalcando la normativa edilizia comunale, consentono di trasformare i sottotetti esistenti ad uso abitativo mediante il rilascio di concessione edilizia a condizione che non si tratti di opere già soggette a condono edilizio e che non venga alterata la sagoma del tetto. La normativa regionale fissa le altezze minime interne cui devono soddisfare i sottotetti per poter essere adattati ad abitazione, altezze che, evidentemente, sono da considerarsi in deroga a quelle eventualmente più restrittive previste dalle normative comunali.

Per quanto riguarda i benefici attesi bisogna fare alcune considerazioni. Sulla riduzione dei consumi energetici non sembra che l’utilizzo di queste strutture possa comportare un significativo contributo. Infatti i sottotetti necessitano solitamente, a loro volta, di adeguati interventi di coibentazione, non sempre possibili senza modifiche alla sagoma del tetto. Probabilmente l’unico effetto positivo di tali interventi può consistere nella limitazione del consumo di suolo i cui benefici effetti potrebbero però essere “compensati” da una ulteriore congestione di aree urbane già compromesse. E’ pur vero che queste norme regionali consentono ai comuni di individuare le aree dove tali interventi non possano essere consentiti, tuttavia non si può non rilevare che sotto il profilo strategico il problema sia stato affrontato alla rovescio. Infatti sarebbe stato più opportuno che le leggi regionali avessero concesso la facoltà ai comuni di individuare le aree dove sarebbe stata consentita la trasformazione dei sottotetti esistenti ai fini abitativi. L’averlo esteso “ope legis” a tutto il territorio comunale comporta certamente una “resistenza” maggiore a che alcune aree possano essere, in un secondo momento, “discriminate” in senso negativo dalle amministrazioni comunali. Questa facoltà si presenta quindi piuttosto teorica sia per i tempi tecnici richiesti al fine di elaborare studi per perimetrare le aree da escludere da questo “beneficio” e sia, soprattutto, per motivi di consenso elettorale. Come se non bastasse le amministrazioni comunali sono state “distratte” dalla necessità di risolvere i problemi interpretativi che la sovrapposizione di normative regionali su quelle comunali comporta (per Milano v. P. Righetti, 1998).

Per quanto riguarda la valutazione preventiva degli effetti conseguenti all’applicazione di queste leggi bisogna dire che trattandosi di micro interventi, anche se diffusi, è ben difficile poter analizzare e ipotizzarne l’impatto complessivo che gli stessi possono avere nel miglioramento o nel peggioramento della qualità urbana. Salvo il caso della Lombardia (v. F. Prandoni, 1997), non mi risulta che ricerche in merito siano state svolte nelle regioni dove tali norme sono applicate.

 

Una valutazione qualitativa su di un caso concreto è invece possibile per quanto riguarda gli interventi di realizzazione di sottotetti su terrazzi piani. Il “caso” che si esamina è la città di Andria (BA) ubicata a quota 160 mslm e distante dalla costa appena 10 Km. Le Norme tecniche del nuovo Piano regolatore, entrato in vigore nel 1995, consentono la realizzazione di sottotetti non abitabili. Bisogna precisare che, sino all’approvazione del PRG, le coperture degli edifici andriesi sono state unicamente piane, ciò grazie alla sua posizione climatica favorevole. Negli edifici ottocenteschi i tetti esistenti hanno pendenze modeste in quanto la nevosità nella zona è scarsa, per cui questi non fuoriescono dalla linea di coronamento dell’edificio. Ne consegue che lo skyline della città, fatta eccezione per i grandi edifici pubblici (chiese) è storicamente caratterizzato dall’assenza di coperture a tetto. La nuova normativa, adottata per favorire (ufficiosamente) il contenimento dei consumi energetici attraverso le coperture, ha introdotto la “moda” del tetto che fuoriesce dalla linea di gronda. Non solo ormai tutte le nuove costruzioni sono realizzate con questa copertura ma il fenomeno interessa anche quelle esistenti. Per queste ultime la costruzione di un sottotetto, solo formalmente non abitabile, al disopra della preesistente copertura piana, realizza di fatto un piano in più rispetto all’esistente senza che ciò comporti un apprezzabile incremento di cubatura. Questo è possibile in quanto la normativa comunale stabilisce che il volume dell’edificio è determinato dalla quota della linea di gronda, restando esclusa la sovrastante cubatura espressa dal tetto. Conseguentemente una normativa locale non attentamente ponderata sta provocando, in forma strisciante, due gravi modificazioni dell’assetto urbano: un incremento di fatto, quindi abusivo, della densità abitativa ed una alterazione delle quinte stradali e dello skyline della città la quale, poco per volta, sta assumendo una fisionomia da paese di montagna, del tutto incongruente per la sua collocazione geografica e storica (v. Figg. 1 e 2).

 

Fig. 1 – Andria. Sottotetto non abitabile aggiunto ad un fabbricato anni ‘50 in una quinta stradale caratterizzata da coperture piane.

 

 

Fig. 2 – Andria. Sopraelevazione di un piano con mansarda inserito in un contesto urbano caratterizzato da coperture piane.

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


·       Conclusioni

Dai pochi esempi riportati emerge come le contraddizioni esistenti nel sistema normativo italiano possano avere degli effetti schizofrenici sull’attività di manutenzione urbana: a volte queste si risolvono in ostacoli per la realizzazione di interventi che invece sarebbero auspicabili, altre volte “suggeriscono” la realizzazione di interventi che, alterando in maniera incontrollata il patrimonio urbano, sarebbero da ostacolare. Questo stato di cose anziché essere di stimolo ad un processo di revisione del sistema normativo invoglia il legislatore a seguire la scorciatoia della deroga. Occorre sottolineare la pericolosità concettuale dello strumento “deroga” che, da strumento eccezionale, è diventato nel tempo uno strumento “ordinario”. La conseguenza più grave di questo atteggiamento consiste nella delegittimazione di fatto dell’intero sistema normativo, il quale può essere scavalcato a piacimento.

Da non sottovalutare anche il secondo aspetto nei casi in cui è la stessa normativa che, lungi dal regolare un’attività che dovrebbe essere finalizzata al perseguimento della qualità edilizia, conduce a risultati di tipo opposto. Val la pena precisare che la locuzione “regolare” sottolinea come la normativa tecnica edilizia debba porsi all’interno del fenomeno, per interagire con esso e poterlo governare. Diversamente dalla locuzione “disciplinare”, usata nel corrente linguaggio normativo, che rende l’idea di un qualcosa che si pone all’esterno del processo edilizio e che quindi, non interagendo, non riesce a governarlo. Come in effetti tutt’oggi si verifica.

Si rende quindi necessario procedere ad un profondo rinnovamento della normativa edilizia comunale la quale deve essere vista non più, o non solo, come strumento procedurale (destinato ad essere regolarmente scavalcato da norme statali) ma soprattutto come strumento di progettazione.

Questa necessità è ancor più pressante nel settore della manutenzione urbana. Le vigenti norme statali, partendo dal presupposto luogo comune che gli interventi di manutenzione siano da considerasi “minori” nell’ambito del comparto edilizio, li hanno totalmente liberalizzati. Poiché le norme edilizie locali sono notoriamente carenti in tema di indirizzo operativo risulta evidente che questi interventi “minori” vengono eseguiti nel quasi totale arbitrio degli operatori.

Preoccupante mi sembra, a tale proposito, l’impatto che la recente legge n.443/2001 (art.1 –comma 6- lett.b), può avere nel processo di manutenzione urbana. Secondo la nuova legge la totale demolizione e ricostruzione di edifici esistenti, col solo vincolo della conservazione della cubatura, viene classificata “ristrutturazione edilizia” e, quindi, di fatto liberalizzata in quanto sottoposta a semplice denuncia di inizio di attività (c.d. SuperDia). In mancanza di una normativa edilizia locale impostata in chiave progettuale gli interventi liberalizzati ben presto porteranno ad una radicale trasformazione delle città al difuori di un sia pur minimo controllo di qualità. Se a tutto ciò aggiungiamo il fatto che, data la polverizzazione degli interventi ed il loro numero rilevante, questi sfuggono a qualsiasi tipo di controllo, risulterà evidente quali e quanti danni alla qualità urbana potranno per ciò verificarsi.

Pur condividendo la necessità di “sburocratizzare” il processo edilizio, occorre affermare con forza che questo non può avvenire a discapito del controllo di qualità degli interventi, per cui occorre trovare dei “pesi” compensativi. La revisione in chiave progettuale delle norme edilizie locali può quindi contribuire efficacemente in questa direzione. A tal fine una rivisitazione dei regolamenti edilizi ottocenteschi, che costituivano spesso dei veri e propri manuali di progettazione, potrebbe essere fonte di spunti interessanti.

 

 

Bibliografia

G. Dioguardi (1994), “Manutenzione come strategia”, in Mcm Servicing (a cura), Manutenzione, scienza della conservazione urbana, Milano.

G. Ferracuti (1995), “Manutenzione urbana: un problema, una ricerca, un progetto”, in G. Ferracuti, Tempo qualità manutenzione, Firenze.

I. Franco (1995), “In mansarda, senza abusi”, in Modulo n. 211.

N. Maiellaro e V. Zito (2000), “Voluntary guidelines and sustainable building code”, Atti della conferenza mondiale The human being and the city. Towards a human and sustainable development, Napoli, 6-8 Settembre.

F. Prandoni (1998), “E la legge va…”, in Modulo n. 237.

P. Righetti (1998), “Le note esplicative, finalmente”, in Modulo n. 239.

V. Zito (2001), “Il Regolamento edilizio oggi, nella cultura e nella prassi”, in V. Zito (a cura), Per un “nuovo” Regolamento edilizio, Atti del Seminario di studi, Bari, 30 maggio. (su Internet all’indirizzo http://www.iris.ba.cnr.it/re).

 

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