Territorio di Bitonto. Trullo adiacente Torre Pozzo
Cupo.
Sito n.: 63 - TRULLO
All'incrocio tra via Giovinazzo e la poligonale, immersa in un
folto oliveto, sorge l'antica “calcara”, piccolo gioiello di
archeologia industriale, in ottimo stato di conservazione,
databile presumibilmente agli inizi del XIX secolo.
Costruzione in muratura edificata con la tecnica delle “pietre
a secco”, a forma di cono tronco, simile nell'aspetto ad un
trullo, alta circa 3 metri e con diametro interno di 5, veniva
utilizzata per la produzione di calce “viva” mediante la
cottura di sassi calcarei. Appartiene al tipo di forno a “fuoco
intermittente”, che prevede, cioè, l'interruzione del
funzionamento al termine di ogni ciclo di cottura, per
consentirne lo svuotamento ed il carico successivo.
Adiacenti, un grande pozzo e due ambienti, uno destinato al
ricovero e dormitorio degli operai e l'altro semi-ipogeo,
adibito presumibilmente a deposito. Intorno alla struttura si
dispiega una scala in pietra, attraverso cui si raggiunge la
bocca della calcara. Per la costruzione occorrevano una
quindicina di operai (carcarari), che scavavano un fosso
profondo 3 metri per 5 di diametro e ne rivestivano le pareti
con pietre, sino a formare un muro circolare alto circa 3
metri (camisa). Nella parte esposta a mezzogiorno, veniva
lasciata un'apertura (ingresso di alimentazione), per il
passaggio della legna, davanti alla quale sostavano gli
operai a turni di 6 ore. All'interno, si provvedeva a
sistemare una grande quantità di sassi calcarei con
precisione sino a formare un basso e largo cono, la cui
sommità veniva rivestita di uno spesso strato d'argilla
(cappella di ricopertura), al fine di evitare dispersioni di
calore. Il fuoco, prodotto dalla combustione della legna
sottostante, costantemente alimentato per 3 giorni e 3 notti,
sviluppava una temperatura interna di 800 gradi, tale da
modificare i sassi, privi ormai di ogni residuo di acqua,
divenuti molto leggeri e friabili. Tale procedimento (cottura)
richiedeva la presenza continua degli operai vicino alla
fornace, che veniva costantemente alimentata e controllata.
Il rivestimento della calotta superiore d'argilla, a seguito
dell'alto calore, seccandosi si screpolava, creando piccole
fessure dalle quali fuoriuscivano lingue di fuoco di colore
bianco. Quando i sassi erano definitivamente cotti, un forte
odore di uova marce si spandeva nell'aria. A questo punto si
cessava di introdurre la legna da ardere. Passati alcuni
gironi si provvedeva a “scaricare” la calcara, eliminando
inizialmente lo strato d'argilla sovrastante e scaricando i
sassi divenuti ormai leggerissimi. Questi, trasportati sul
cantiere, immersi in apposite vasche d'acqua, si
trasformavano in calce “spenta”.
L'uso della calce per la preparazione di malte, leganti le
murature di pietra, in sostituzione dell'argilla, ha origine in
età romana. Nel medioevo si continua a farne ampio uso,
anche se durante l'alto-medioevo per la costruzione degli
edifici più modesti, viene sostituita dall'argilla, materiale più
facile da reperire. A partire dal XIV secolo, in Italia,
legislazioni statutarie tutelano gli acquirenti di calce,
definendo i requisiti del prodotto commerciale, il prezzo e le
misure impiegate nella vendita, e ordinando ai “calcinieri”
(venditori di calce) di giurare che “bene et legaliter et rette
ponderabunt calcinam”, pena una multa di 100 soldi.
Mescolando tramite la “marra” (un attrezzo del manico
molto lungo, simile ad una zappa) calce con acqua ed
aggreganti (sabbia, frammenti di laterizi, ecc.), si
produceva la calcina che, versata in appositi vassoi in legno
o ampi secchi, veniva trasportata da manovali su cantiere,
dove i muratori, dopo averla nuovamente mescolata con la
cazzuola, ne stendevano uno strato sui vari mattoni o pietre
da mettere in opera.
Estratto dell'articolo pubblicato su:
“Primo Piano”- periodico mensile di cultura, politica ed
attualità.
P. Fallacara, La calcara, gioiello di archeologia industriale,
ed. Associazione Culturale Realta' riVista, Febbraio 2004.
Territorio di Bitonto. Ingresso del trullo.
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